Marco Fantin alla Carnegie Mellon University

Il caso di uno dei tanti «cervelloni» veneti che fanno fortuna in giro per il mondo, il giovane bassanese si affaccia alla realtà statunitense.

Marco Fantin alla Carnegie Mellon University
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Marco Fantin alla Carnegie Mellon University

L’ultima beffa per i «cervelli» italiani che fanno ricerca nelle università in giro per il mondo arriva da Catania: si è dimesso da pochi giorni il Rettore accusato, assieme ad altri nove professori, di truccare i concorsi e di conseguenza di impedire che le nostre migliori menti possano sognare una carriera universitaria senza avere il nome sottolineato. Marco Fantin, bassanese doc, è uno dei tanti ricercatori che partendo dall’università italiana è arrivato nei grandi centri di ricerca internazionali. Laureato a Padova in Chimica Industriale con 110 e lode, ha proseguito gli studi con un dottorato specializzandosi in elettrochimica. Dalla collaborazione tra l’Università di Padova e la Carnegie Mellon University, grazie anche ai contatti del professor Armando Gennaro, è entrato in contatto con il mondo della ricerca statunitense.

Come e quando è arrivata l’opportunità di fare ricerca alla Carnegie Mellon di Pittsburgh, in Pennsylvania, una delle «New Ivies», considerata una delle nuove università più prestigiose degli Usa?

«Ho conosciuto in un seminario a Padova il professor Matyjaszewski, uno dei più stimati chimici al mondo. Nel 2015 grazie ad una borsa di studio sono andato a studiare presso il Dipartimento di Chimica della Carnegie Mellon University al Matyjaszewski Polymer Group».

Nello specifico, qual è il suo filone di ricerca scientifica?

«Adesso ho lasciato la ricerca universitaria e lavoro al centro di ricerca e sviluppo della PPG Industries di Pittsburgh, la più grande azienda di vernici e rivestimenti al mondo. Il mio filone di ricerca riguarda lo studio dei materiali polimerici e i materiali plastici. Alla PPG faccio ricerca specifica per nuove vernici da impiegare nel campo dell’automotive. Mi occupo anche di studiare nuove soluzioni per i rivestimenti interni autopulenti di taxi e macchine utilizzate per il car sharing, visto che hanno tanti utilizzatori e c’è necessità di mantenerle pulite il più possibile».

Le future rivoluzioni copernicane nel settore dell’auto come indirizzano le vostre ricerche?

«Per il campo della chimica nel breve-medio periodo, la ricerca si muove per scoprire vernici in grado di rendere le macchine senza guidatore visibili e riconoscibili tra loro».

In Italia si potrebbe fare ricerca in questo suo specifico campo con le stesse opportunità che ha negli Usa, o stiamo parlando di mondi non comparabili?

«Sono ambienti molto diversi, negli Usa sicuramente ci sono più possibilità, tutto è in continua evoluzione e si ha spesso l’impressione di viaggiare “sulla cresta dell’onda”. Sta di fatto che ho ricevuto le mie prime offerte di lavoro proprio dagli Usa. Dal punto di visto accademico, sia negli Stati Uniti che in Italia si lavora molto. La ricerca in Italia è estremamente competitiva, specialmente se si considerano i pochi fondi a disposizione. Avere comunque le giuste conoscenze nel mondo del lavoro è importante dappertutto. In base alla mie esperienze, negli Usa tuttavia le persone ricoprono un certo ruolo semplicemente perché hanno le competenze necessarie».

Oltre agli studi sulle vernici riconoscibili, quali sono gli altri settori strategici nella ricerca chimica?

«Da qui ai prossimi anni la chimica dovrà essere sempre di più “non tossica”, in grado di produrre materiali non pericolosi e di limitare l’uso dei solventi. La chimica dovrà essere ecosostenibile e attenta all’ambiente, visto che i regolamenti internazionali di settore sono sempre più stringenti. La Cina ha in mano il pallino della regolamentazione e sta diventando più severa anche degli stessi Stati occidentali».

Come ha scoperto di avere la predisposizione per fare lo scienziato?

«E’ stato un processo graduale, fin da bambino mi sono sempre chiesto il “perché” delle cose, di come funzionano, mi appassionava risolvere i problemi. Diciamo che la consapevolezza vera e propria l’ho avuta negli States: dopo pochi mesi di lavoro ho pubblicato due mie ricerche nel “Journal of American Chemical Society”, rivista scientifica di rango internazionale».

Tornerebbe in Italia?

«Ho ricevuto di recente qualche proposta dal mondo accademico italiano. Sì, tornerei a parità di condizioni economiche e di risorse per la ricerca, in università o in azienda».

Cosa le manca dell’Italia?

«La mamma… In generale la spensieratezza del nostro Paese, comunque in Italia si respira un clima più gioioso e di festa».

Da fuori, dagli Usa, come vedono il nostro Paese?

«Gli americani amano l’Italia ma non sanno nulla dell’Italia. Conoscono alcune città, alcuni luoghi turistici, ma al di là di pizza e del vino buono c’è poco altro. Ma questo probabilmente non vale solo per gli americani».

Quali sono i punti di eccellenza del nostro sistema formativo che possono darci la speranza di mantenere l’Italia tra i grandi Paesi industrializzati?

«A mio parere l’Italia ha il sistema universitario migliore al mondo, almeno per quanto concerne lo studio dei fondamentali delle diverse discipline. Gli italiani che si laureano in una buona università conoscono la chimica di base, o le basi della scienza, meglio di chiunque altro al mondo. Il problema è che il sistema universitario non riesce a trattenere i migliori ricercatori, figuriamoci se è in grado di attrarli dall’estero».

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