74° anniversario della Liberazione: il discorso del sindaco Poletto

Le parole del primo cittadino in occasione del 25 aprile 2019.

74° anniversario della Liberazione: il discorso del sindaco Poletto
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74° anniversario della Liberazione: il discorso del sindaco Poletto

"Cittadine e cittadini, in particolare i più giovani, autorità di ogni tipo e di ogni grado, rappresentanti delle associazioni tutte, benvenuti in questa sala consiliare, vi ringrazio d’aver voluto partecipare alle celebrazioni del XXV aprile.
Ogni anno sentiamo la necessità di fare memoria della Liberazione non solo per mantenere viva ed aumentare la conoscenza dei fatti che generarono l’Italia libera e democratica, per aggiungere informazioni, scoprire nuovi documenti, ma anche e soprattutto per far rivivere i drammi delle persone coinvolte in quei fatti, i drammi delle decisioni prese a volta con i tempi pacati della riflessione, molto più spesso concitatamente e quando accade così, che si devono prendere decisioni concitatamente, a fare la differenza è il percorso che si è fatto prima, le motivazioni che si sono radicate in profondità, i valori e i convincimenti che si sono decantati nel tempo. A fare la differenza fu il fatto che i fondamentali della civiltà e della convivenza, della pace, della democrazia e dei diritti, in alcune persone erano stati assimilati e in altre solo “appiccicati” esternamente oppure annebbiati da vent’anni di fascismo. Per questo ho scelto di porre l’attenzione in questo 25 aprile su alcune storie nella storia, su alcune vicende con cui sono entrato maggiormente in contatto in questo mandato amministrativo, che mi ha offerto l’occasione per rimettermi in ascolto in particolare delle esistenze di tre persone legate fortemente alla nostra città: Disma Martin, Tina Anselmi e Nino Torcellan. Sono storie che in qualche maniera si sono concluse in questi 5 anni e spetta a noi il compito di prenderne il testimone, Disma Martin è morto infatti nel 2016 a luglio, Tina Anselmi pure è morta nel 2016 a novembre, di Nino Torcellan è morta la moglie nel febbraio del 2015 ed è stata lei fino alla morte testimone dei fatti vissuti con il marito, essendo stato Nino vittima dei nazifascisti nel ’44. Disma Martin nacque nel novembre del 1925, nato e cresciuto durante il fascismo, ha attraversato tutte le tappe con le quali il regime scandiva il percorso educativo dei ragazzi, è partito poi volontario con l’aviazione desideroso di dare il proprio contributo ai fasti della patria, come si usava dire al tempo. Poi arriva l’8 settembre e la disillusione, il regime si palesa per quel che era stato realmente e Disma se ne torna a casa fino alla primavera del 1944. In quel periodo sorge dentro di lui il desiderio di fare qualcosa per liberare l’Italia e parte, a soli 19 anni, per la montagna, per unirsi ai partigiani e dare il suo contributo attivo, poco incline ad appartenenze ideologiche particolari ha fatto parte di molte formazioni partigiane, testimoniando pluralismo e grande capacità di dialogo con tutti. I suoi racconti, inoltre, hanno spesso ricordato le variegate modalità con cui molte persone contribuirono alla Liberazione, nei numerosi mesi di attività nella Resistenza, Disma Martin ha ricevuto aiuti, ha incontrato persone e famiglie che lo hanno ospitato, sfamato, vestito o che semplicemente sapevano delle sue attività e non ne hanno fatto parola con nessuno che potesse comprometterne la sicurezza: anche solo questo, il non fornire informazioni circa attività partigiane di cui si era a conoscenza, era motivo di incarcerazione e persecuzione.
Disma venne arrestato nel febbraio del ’45, incarcerato prima a Bassano, in viale Venezia, poi a Longa di Schiavon, uscito di prigione partecipò direttamente alle fasi finali della liberazione di Bassano il 29 aprile 1945. Gli ideali vissuti in quegli anni lo segnarono anche dopo, raccontò infatti, tra le altre cose, di essersi adoperato con altri a guerra finita, per trovare un posto di lavoro alle smalterie al compagno d’armi che sotto minaccia li aveva traditi, perché anche lui aveva una famiglia da mantenere ed aveva parlato esclusivamente per salvarsi la vita. In molte altre occasioni il suo comportamento testimoniò oltre che la capacità di dialogo e di collaborazione con tutti anche il rifiuto di ogni logica di vendetta pure nei confronti dei suoi aguzzini. Tina Anselmi nacque nel 1927 , ebbe modo di raccontare più volte che all’origine del suo impegno in prima persona nella Resistenza, vi fu un episodio legato all’eccidio del 26 settembre 1944 a Bassano. Tina frequentava allora l’Istituto Magistrale in città, a seguito del rastrellamento del Grappa ci furono prima le fucilazioni e poi, il 26 settembre appunto, le impiccagioni in viale dei Martiri e nelle altre vie vicine. Il giorno seguente, il 27 settembre, i nazisti tedeschi e i fascisti nostrani ebbero la brutale e macabra idea di obbligare schiere di alunni e studenti a sfilare davanti ai corpi ancora appesi agli alberi; anche la classe di Tina Anselmi dovette farlo e lei raccontò poi che una volta tornata in classe ci fu una discussione furibonda tra le compagne, da una parte quelle che ritenevano giusta l’impiccagione e dall’altra quelle che la condannavano, tra queste ultime c’era anche la sorella di Lino Camonico fucilato pure lui qualche giorno prima a Fonzaso.
In quella mattina, se ce ne fosse stato bisogno, Tina Anselmi comprese molto bene non solo da quale parte bisognava stare, ma anche che prendere posizione non bastava, bisognava agire e in breve anche lei mise a repentaglio la propria esistenza per contribuire alla Liberazione e divenne staffetta partigiana. Sopravvisse al rischio e in seguito fu una tra le donne politicamente più importanti della storia repubblicana, dirigente sindacale prima, poi eletta più volte in Parlamento, prima donna ad essere nominata ministro del governo italiano, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2.
A Castelfranco sua città natale, il giorno dei funerali erano presenti moltissime persone, tre le quali molte donne e uomini che hanno segnato la storia recente del nostro paese. Nino Torcellan nacque nel 1919 e morì nel 1944 a 25 anni, dei tre l’unico a pagare con la vita la scelta di combattere il nazifascismo. Atleta straordinario, da giovane eccelse in moltissimi
sport a livello nazionale, fece l’esperienza della guerra in Piemonte, sul fronte francese e riportò gravi ferite tali da farlo congedare nel 1942, in seguito tornò quindi nella sua casa in borgo Angarano in città. Poi arrivò l’8 settembre del ‘43 e Nino scelse la parte giusta: andò in montagna per unirsi ai partigiani. Il 1944 è stato per lui un anno fatidico: il 5 gennaio si sposò con Maria Antonia Cortese, anch’ella attivista partigiana, il 12 settembre i nazisti fecero un rastrellamento in Val Gallina, tra Valrovina e Rubbio, Nino riuscì a mettere in salvo la moglie, incinta, ma poi venne ucciso; il 9 dicembre dello stesso anno nacque suo figlio che porta lo stesso nome e che saluto con affetto e commozione. Nino Torcellan ricevette la Medaglia di Bronzo al Valor Militare alla memoria. La cosa che più stupisce della sua esistenza è l’assoluta gratuità: aveva rischiato di perdere la vista in seguito al ferimento sul fronte francese, e si era guadagnato per questo il congedo, aveva un buon lavoro e si era appena sposato, attendeva la nascita del figlio, avrebbe potuto starsene tranquillo, vivere la sua vita e attendere che finisse la guerra. Non aveva alcun obbligo, in quanto congedato, non era stato costretto come altri a scegliere tra l’arruolamento nelle file dei repubblichini, l’internamento nei campi di lavoro nazisti o l’adesione alle formazioni partigiane. Poteva continuare a condurre la sua vita in pace. Mi chiedo: chi glielo ha fatto fare di rischiare e morire senza neanche veder nascere il figlio? Non glielo ha fatto fare nessuno. Come nessuno ha obbligato Disma Martin a partecipare giovanissimo alla lotta partigiana con un impegno diretto o a Tina Anselmi di prendere la bicicletta e fare la staffetta di collegamento tra i vari gruppi che vivevano in clandestinità. La domanda che dobbiamo porci non è “chi glielo ha fatto fare?”, ma invece “Perché lo hanno fatto?”, o meglio “Per chi lo hanno fatto?” La risposta è “per tutti noi” che oggi possiamo parlare del fascismo e del nazismo come di cose passate, che possiamo studiare, lavorare, fare figli e crescerli in un paese libero, paese in cui possiamo godere di tutte quelle cose alle quali molti all’epoca hanno volontariamente rinunciato.

Queste tre storie ci dicono molto. Primo: violenza, barbarie, razzismo, disprezzo per la vita e la libertà e per i più elementari diritti umani esistono; secondo: non saranno mai scacciati definitivamente fuori dalla storia e quindi potrebbero riaffacciarsi anche nelle nostre singole storie, così come è accaduto ai tre protagonisti di queste vicende; terzo dobbiamo essere pronti a contrastarli, nei modi che siamo in grado di mettere in atto. Ma credo che se i testimoni di oggi potessero parlarci non ci chiederebbero solamente di essere pronti a fare la nostra parte come loro hanno fatto la propria, di essere nelle condizioni d’animo di mettersi a disposizione per la causa della giustizia, dei diritti, di essere pronti a sacrificare qualche cosa delle nostre esistenze se dovesse essere necessario. Credo che ci direbbero anche: “cercate il più possibile di non dovervi trovare nelle nostre condizioni, di non essere catapultati nella necessità di dover di affrontare un sistema brutale e violento”, “cercate di prevenire lo scivolamento verso la violenza e l’ingiustizia”, “cercate di sviluppare
buoni anticorpi che siano in grado di evitare l’infezione”, “fate il possibile per fermare il mostro prima, prima che cominci a fare danni”. Il loro monito va innanzitutto nella direzione della prevenzione, dell’attenzione continua al mantenimento di libertà e democrazia, alla difesa dei diritti e alla loro implementazione, perché il progresso civile non può arrestarsi, non può stare fermo, o avanza o indietreggia. Guai se dovessimo dimenticare la loro lezione, vale anche per noi il duro monito che Primo Levi scrive nell’introduzione del libro “Se questo è un uomo”:

Voi che vivete sicuri 
nelle vostre tiepide case, 
voi che trovate tornando a sera 
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo 
che lavora nel fango 
che non conosce pace 
che lotta per mezzo pane 
che muore per un sì o per un no. 
Considerate se questa è una donna, 
senza capelli e senza nome 
senza più forza di ricordare 

vuoti gli occhi e freddo il grembo 
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato: 
vi comando queste parole. 
Scolpitele nel vostro cuore 
stando in casa andando per via, 
coricandovi alzandovi; 
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa, 
la malattia vi impedisca, 
i vostri nati torcano il viso da voi.

Un altro paio di riflessioni:
Più passa il tempo e più il mondo diventa un villaggio globale, e di conseguenza non possiamo ignorare che se noi possiamo vivere in un contesto pacifico e democratico, grazie a che ci ha preceduti, così non è per milioni di persone, forse miliardi di persone per le quali i più elementari diritti sono ancora un sogno, un obiettivo lontano. Non possiamo ignorarlo per comune appartenenza alla razza umana e non possiamo ignorarlo anche su un piano pragmatico: spesso si tratta di situazioni altamente instabili che generano conseguenze anche nel nostro paese. Quest’anno ricorrono, in queste settimane, i venticinque anni del genocidio del Rwanda, quasi un milione di morti trucidati in meno di tre mesi, in un paese che contava otto milioni di abitanti. Io ho avuto l’opportunità di visitarlo nel 1999, cinque anni dopo il genocidio, con gli scheletri ancora presenti in massa, come monito, nelle chiese dove molti avevano cercato invano un rifugio. Vi assicuro che è stata un’esperienza non molto dissimile dal visitare le camere a gas e i crematori di Auschwitz. Eppure il genocidio rwandese è accaduto a distanza solo di qualche decennio da quelli che si sono consumati nella Germania nazista e l’assenza
dell’Europa e dell’occidente è stata scandalosa e colpevole; un paio di anni dopo non è andata molto meglio in Bosnia, nel cuore dell’Europa. Dobbiamo pretendere che la difesa e la diffusione dei diritti sia tra le priorità delle agende politiche internazionali e il nostro paese che è stato protagonista della propria Liberazione, certamente con l’aiuto insostituibile degli alleati, deve giocare un ruolo importante.

La nostra Città si è meritata una medaglia d’oro, nel medagliere nazionale c’è Bassano del Grappa. L’anno scorso mi sono recato al Sacrario delle Fosse Ardeatine a Roma e ho sfogliato il libro dalle pagine in bronzo con tutte le motivazioni delle Medaglie d’Oro delle città italiane, non sono molte e c’è Bassano del Grappa, dobbiamo esserne orgogliosi. Per questo abbiamo introdotto nel cerimoniale del 25 aprile la lettura da parte di una giovane studentessa del testo della motivazione della Medaglia d’Oro e per le stesse ragioni abbiamo istituito un concorso per gli istituti superiori cittadini per premiare gli studenti che sapranno rappresentare e attualizzare i contenuti di quella motivazione nelle modalità e con i linguaggi
che preferiscono. Per non dimenticare.
Per guardare avanti forti del nostro passato.
Viva l’Italia liberata!"

 

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