Nicola Zolin attraverso le foto racconta il mondo
Le foto sono storie di migranti, donne, uomini e bambini, che abbracciano la speranza di raggiungere la stabilità perduta per una guerra calata dall’alto.
Nicola Zolin attraverso le foto racconta il mondo
Nicola Zolin, fotoreporter e giornalista, originario di Mason Vicentino, ha inaugurato, sabato 19 ottobre, la mostra sul progetto che ha compiuto a Riace. Aveva appena terminato gli studi in Olanda, quando decise di partire con i suoi coinquilini per un lungo viaggio. 12mila chilometri per l’Europa, fino a giungere in Brasile. Da lì, la sua fame di conoscenza, l’ha spinto verso l’Iran, la Palestina, la rotta balcanica, raccontando, attraverso il medium fotografico, storie di giovani, accompagnati dalla speranza e ricerca di libertà in quei stati, caratterizzati da un rigido sistema autoritario. Storie di migranti, donne, uomini e bambini, che abbracciano la speranza di raggiungere la stabilità perduta per una guerra calata dall’alto. Quelle foto ora le rivediamo in giornali come De Volkskrant, Courrier International, Stern, Der Spiegel, La Repubblica, Al Jazeera, Internazionale, con i quali Nicola collabora. Nella speranza che quegli scatti trapassino il foglio di giornale e la storia dei protagonisti rimanga impressa nella mente del lettore.
Affermi che la fotografia può essere un’arma da utilizzare per abbracciare la propria frustrazione.
«Sì, in certi progetti in cui ho affrontato dinamiche e realtà difficili da accettare. Ti rendi conto che la tua macchina fotografica, il tuo essere giornalista diventa un’arma, che ti dà la possibilità di interagire con queste dinamiche di ingiustizia verso determinate categorie di persone e situazioni. Tu sei lì con lo scopo di raccontare, di contribuire al cambiamento, parte attiva. Sai che non potrai cambiare la vita alla persona che ti è di fronte, ma nello stesso tempo non sei passivo. Diventa un’arma per la propria frustrazione, nella speranza che le cose possano cambiare».
Una fotografia può diventare un mezzo per cambiare una situazione?
«In alcuni casi sì. Ci sono sempre state foto iconiche, che hanno cambiato la realtà, per esempio la foto di Nick Ut sulla guerra in Vietnam o la foto di Alan Kurdi, il bambino morto sulle spiagge di Bodrum, in Turchia. Ogni persona sui media le vede e quindi diventa una foto simbolica perché spinge le persone a riflettere sopra tale immagine. Creano una consapevolezza, una discussione. Hanno il potenziale di farlo, ma non è detto che creino una svolta. Credo che più che la fotografia in sé, sono le storie che ti restano, che ti fanno vedere la realtà in maniera diversa».
Quando hai iniziato a fotografare?
«Già da bambino la fotografia mi apparteneva. Fotografavo con la macchina di mio padre. Crescendo e avendo desiderio di interagire con il mondo, la fotografia la sentivo come mezzo di espressione, come dialogo, che mi permetteva di uscire dai miei limiti. Ricordo quando andai in Polonia a trovare un’amica. La portai per la prima volta ad Auschwitz. Lì dentro c’era un memoriale per gli ebrei italiani. Approfittando della situazione, scattai una foto in cui questa mia amica compariva in silhouette al centro del frame. Questa foto me la ricordo perché ogni qual volta che la guardo, percepisco il marasma di emozioni che lei stava provando. Da polacca, per la prima volta ad Auschwitz. In quel momento mi è parso di raccogliere in uno scatto le emozioni che sorreggevano la mente di questa persona. Da quello scatto ho trovato l’energia di credere nella fotografia come mezzo di espressione».
Qual è stato il passaggio successivo?
«Ho sempre avuto una fame di viaggi. Non solo per fotografare ma perché ero interessato a viaggiare. Per 6-7 anni ho viaggiato senza l’obiettivo di farne un progetto concreto o un mezzo di vita. C’è stata una lunga fase in cui non pensavo di potercela fare, l’unica cosa che sapevo era che dovevo spingermi oltre perché era l’unico modo per continuare a farcela. Ma soprattutto mi spingevo oltre perché mi piaceva farlo. C’è stata una fase riflessiva: ero in Cina, stavo lì da 5 mesi, avevo finito i soldi e avevo fatto dei progetti che non riuscivo a vendere. Perciò mi chiesi quanto ne valesse la pena continuare. Però la fase successiva a quel viaggio è stata la svolta: ho trovato le collaborazioni importanti, ho iniziato a vendere servizi a cui tenevo. Da allora non ho più dubitato. A volte mi chiedo per quanto tempo ho voglia di occuparmi delle storie altrui e quando deciderò di occuparmi di me stesso e far zittire il mondo esterno. Adesso sto bene nell’equilibrio delle due cose. A livello emotivo e creativo devi stare in equilibro. Questo lavoro ti porta ad andare a parlare a persone che si trovano in situazioni difficili. Hai a che fare con delle ingiustizie e prevaricazioni. Conosci vittime di queste dinamiche e questo può buttarti giù: puoi avere momenti di depressione, di tristezza. Ti chiedi che impatto ha quello che stai facendo e se ne ha abbastanza. Per me la risposta è sempre sì, ne vale la pena. Sento che il mio posto è questo: quello di messaggero da un posto ad un altro».
Come ti senti quando torni a casa?
«Tornare in Italia è come tornare in Olanda, in Francia, in tutti i Paesi in cui ho vissuto per diverso tempo. Tornare a volte significa catapultarsi in mezzo a delle persone che non si preoccupano delle cose di cui ti preoccupi e vivono una vita superficiale da consumatori, senza porsi domande, mentre io vivo sempre in connessione con quello che succede. Quando ti affacci a delle realtà statiche, che non riflettono quello che tu senti o vivi, ti senti un po’ distaccato. Io sento il desiderio di stare per i fatti miei. Cerco di non farmi contaminare dalla cultura degli altri perché mi sento fiero dei miei valori e personalità. Cerco di non farmi contaminare dalla superficialità, dal lamento appartenente alla nostra cultura».
In quali progetti senti una connessione tra ciò che sei tu e l’Altro?
«In generale, in tutti rivedo un pezzo di me. Sento particolarmente mio, il reportage sulla gioventù in Iran e i giovani iraniani: ci sono anch’io con loro. La spinta verso la libertà di quelle persone era la stessa spinta che io avevo verso la libertà nella mia società. Mi interessava come loro si relazionavano ad un mondo di oppressioni. Rendendomi conto che anche nel mio Paese, in altre forme, subivo, come giovane, un livello di oppressione tale che cercassi anch’io di spingermi fuori. Anche nei lavori sulla rotta balcanica ed in Italia mi sentivo di empatizzare molto con le persone. Nello stesso progetto su Riace c’è una parte di me. Quella parte che vede la bellezza di più culture che entrano in contatto, che si contaminano, che si scambiano. La bellezza di andare al di là della tradizione e della cultura».